Il mondo pare impazzire per il fenomeno criptovalute, una delle nuove frontiere della speculazione in campo tecnologico. Come sempre accade però in questi casi, l’entusiasmo ci porta a non considerare quelli che sono i “lati oscuri” della tecnologia del blockchain sulla quale le criptovalute si fondano, in particolare, sul prezzo che dobbiamo pagare in termini di danno ambientale.

Tra l’altissimo consumo energetico e le ricadute del cosiddetto mining (la codificazione delle sequenze di blocchi che “producono” una criptovaluta), l’impatto di questa nuova tecnologia rischia di creare danni anche economici ben superiori ai vantaggi dati. Bitcoin è al momento il maggior colpevole, ma l’intero comparto del blockchain è sotto accusa.
Il mining rappresenta il nodo critico dell’industria, per via del cosiddetto proof-of-work, il sistema al momento utilizzato per rendere disponibili le criptovalute. Dal momento che esso si fonda sulla competizione tra super computer che lavorano 24h su 24h, per risolvere un complicatissimo algoritmo che darà origine a un blocco della sequenza, si può intuire quanto dispendioso sia in termini di consumo energetico questo sistema di produzione. Se si considera che ci sono già centinaia di migliaia di miners attivi, e che si prevede il loro numero possa anche raddoppiare nel giro di pochi anni, capiamo come si faccia presto a raggiungere i consumi di un paese di taglia media (le stime parlano di circa 120 Terawatt/h l’anno solo per la produzione di bitcoin, pari circa al consumo dei Paesi Bassi o dell’Argentina).

La nuova geografia del mining.
La decisione della Cina, una volta il più importante centro di mining del mondo, di proibire le criptovalute e il loro mining, divide gli analisti. La chiusura dei moltissimi impianti sul suolo cinese, principalmente alimentati a combustibile fossile e spesso siti in zone deregolamentate dal punto di vista ambientalistico dovrebbe essere una buona notizia, ma la migrazione degli stessi in zone dove l’energia ha prezzi irrisori potrebbe in certi casi significare un peggioramento delle condizioni di produzione stesse. Emblematici sono i casi degli Stati Uniti, nuovo primo hub di mining, dove i combustibili fossili sono ancora molto usati e spesso si sono costruiti nuovi impianti senza un piano ambientale di contingenza (ad esempio il lago di Seneca o la centrale di Dresden), senza contare che l’aumento esponenziale dei consumi si riflette anche sulla disponibilità e il prezzo dell’energia. Ancora peggiore è il caso del Kazakistan, al momento secondo hub di mining (rappresenta circa il 18% del totale mondiale), dove l’aumento esponenziale dei consumi indotto dal mining potrebbe avere contribuito non poco alla crisi energetica che ha causato le rivolte nel paese. Al contrario, un caso virtuoso potrebbe essere l’Islanda: l’isola infatti ottiene la quasi totalità della sua energia da fonti rinnovabili, e le basse temperature medie risolverebbero in parte i constanti problemi di surriscaldamento delle macchine, riducendo l’impatto ambientale del mining a livelli accettabili.

L'impatto dell'E-waste.
Da considerare è anche l’impatto che si ha in termini di e-waste, ovvero degli scarti di materiale hardware che la produzione comporta. Se parte dei materiali usati per la produzione di computer può essere riciclata, il problema è rappresentato dai chip e dagli Application Specific Integrated Circuits (ASIC), componenti così specifici e complessi da non potere trovare un secondo utilizzo dopo il breve ciclo di vita del computer (stimato in meno di un anno e mezzo, per potere mantenere la competitività), e che quindi vengono scartati senza possibilità di riciclo. Si calcola che vengano prodotte annualmente circa 30.700 tonnellate di scarti in gran parte non riciclabili (e spesso non riciclate nemmeno quando possibile), in genere smaltite in paesi del terzo mondo senza le infrastrutture per operare un riciclo di sorta (in totale, meno del 17% dei rifiuti elettronici vengono riciclati nel mondo). Si prevede che questo uso intensivo dei chip potrebbe anche riflettersi alla fine sulla produzione globale degli stessi, in un periodo in cui in alcuni settori si fa già fatica a procacciarsi gli stessi.

Come risolvere il problema?
Secondo gli analisti, l’unico modo per uscire da questo circolo vizioso sarebbe trovare un sistema di mining meno dispendioso. Un esempio, potrebbe essere il proof-of-stake, un sistema alternativo già utilizzato da alcune criptovalute minori, che si basa non sul calcolo continuo delle macchine, ma su una specie di “garanzia” data dai bitcoin già posseduti. Questa tecnica funziona come una lotteria, dove a seconda degli “stake” messi in gioco da ogni singolo attore, vi è una possibilità di venire selezionati come validatori dei nuovi blocchi di valuta. Ethereum, la seconda criptovaluta per giro d’affari, sta già pensando d’implementare questa tecnica per ridurre le emissioni dovute al proprio mining.
In alternativa, bisognerebbe aumentare la quantità d’energia derivante da fonti rinnovabili usata nel mining. C’è chi propone anche metodi alternativi come l’uso del gas, che di solito viene scartato, derivante dall’estrazione del petrolio. Il problema è che in questo modo il prezzo dell’energia potrebbe aumentare, rendendo queste soluzioni meno appetibili per i miners, che tendono a spostarsi verso zone dove il comparto energetico è fortemente deregolarizzato e spesso assai economico. Oltretutto, a meno che non ci sia un eccesso di produzione di energie rinnovabili, il peso sulla griglia energetica del mining continuerebbe a richiedere un consumo d’energia fossile per compensare gli eventuali shortage del sistema.